Astronomia
Di 15 Maggio 2024Maggio 29th, 2024No Comments

Aurore boreali, e fenomeni Sar: come si formano e quali sono le differenze

I fenomeni sono apparentemente simili ma non uguali: derivano tutti dall’attività solare, in particolari dalle spulsioni di Massa Coronale (CME).

Foto di Tommaso Stella

Nella notte tra il 10 e l’11 maggio, come tutti sappiamo, il cielo ha dato spettacolo. Milioni di persone hanno alzato il loro sguardo, puntando verso Nord, alla ricerca di strani bagliori rossi che hanno fatto molto scalpore tra giornali e media nazionali. Improvvisamente i nostri cellulari sono stati invasi da strane lettere, numeri e denominazioni, contribuendo a confondere molto i lettori su ciò che è accaduto.

I venti solari

Il protagonista della storia è ovviamente la nostra stella. Il Sole è una gigantesca sfera di plasma e gas ionizzato il quale, oltre a emanare luce e calore, è in grado di produrre particelle cariche altamente energetiche (protoni, neutrini, elettroni, neutroni ecc.) che prendono il nome di vento solare. Generalmente questi corpuscoli vengono emessi sottoforma di un flusso costante dall’astro, ma non sempre è così.

Il Sole infatti possiede un ciclo undecennale, all’interno del quale la sua attività magnetica alterna fasi di quiete e fasi molto intense. Nel primo caso parliamo del ‘minimo solare’, nel secondo ‘massimo solare’. È proprio in quest’ultimo che la stella da spettacolo. Nei 5 anni di durata media di questa fase le linee del campo magnetico del Sole infatti tendono ad “ingarbugliarsi” a causa della rotazione differenziale dell’astro. Questo genera tutta una serie di effetti, come per esempio l’aumento del numero delle macchie solari sulla fotosfera, che viene indicato con il numero di Wolf.

Si tratta di zone dove le linee del campo magnetico si aggrovigliano al punto tale da “bucare” la superficie del Sole, creando queste regioni dove i moti convettivi sono fortemente contrastati. Come conseguenza il plasma caldo dalle regioni sottostanti non riesce a raggiungere la fotosfera e la zona in questione si raffredda, mostrandosi come una macchia nera (ma che nera non è).

Mentre la temperatura media della fotosfera solare è di 5777 K, quella delle macchie può scendere anche intorno ai 3700 K. Le macchie solari vengono anche chiamate Regioni Attive (AR). È proprio da queste zone infatti che il Sole può assumere tutta una serie di comportamenti vivaci.

AR 3654, gruppo di 24 macchie solari fotografate il 28/04/24 (Credits: Giuseppe Livrieri)

Flare e CME

I brillamenti (o flare) sono delle fortissime emissioni di radiazione ionizzante altamente energetica. A differenza di quanto possa suggerire il nome, questi eventi non aumentano la luminosità della nostra stella perché non vengono prodotti in luce visibile, bensì nei raggi X. I brillamenti possono causare danni seri alle sonde spaziali e generalmente alterano le telecomunicazioni radio sulla Terra. Vengono classificati con delle lettere, in ordine crescente (A, B, C, M, X) seguite da un numero.

I flare di classe C, M ed X vengono prodotti soltanto durante le fasi di massimo solare e sono i più energetici che il Sole è in grado di produrre. Quelli di classe C ed M sono abbastanza frequenti, vengono classificati con numeri che vanno da 1 al 9, mentre quelli di classe X sono più rari, partono da 1 e non possiedono un limite superiore (l’Evento di Carrington per esempio raggiunse classe X42).

Tornando al vento solare, un altro fenomeno molto interessante sono le Espulsioni di Massa Coronale (CME). Si tratta di vere e proprie esplosioni di particelle cariche, sparate ad altissima velocità dalla chiusura delle linee di campo magnetico aperte in prossimità delle regioni attive. Queste espulsioni accelerano il vento solare a velocità folli, tra i 400 km/s in media, a casi eccezionali dove vengono superati anche i 1000 km/s.

Esempio di una CME ripresa a febbraio del 2000. (Credits: SOHO ESA & NASA)

A differenza di quanto si possa pensare, un brillamento altamente energetico non sempre è in grado di produrre espulsioni di massa coronale notevoli, mentre “piccoli” flare di classe M per esempio posso generare CME mostruose. Quando una CME raggiunge il nostro pianeta si genera una tempesta geomagnetica.

Generalmente si utilizzano due parametri per misurarne l’intensità: l’indice Kp e la scala G, e spesso le due unità di misura sono correlate. L’indice Kp è l’indice dell’attività geomagnetica globale. Possiede valori che vanno dallo 0 (attività molto ridotta) a 9 (tempesta geomagnetica estrema). La scala G fa sostanzialmente la stessa cosa ma è suddivisa in 5 livelli: G1 è associato a un’indice Kp di 5, G2 Kp 6 e così via fino a G5 con Kp 9. Per vedere aurore dalle nostre latitudini serve necessariamente il grado più estremo: G5 Kp 9.

Mentre i brillamenti viaggiano alla velocità della luce (in quanto radiazioni) e raggiungono il nostro pianeta in circa 8 minuti, le CME possono impiegare svariate ore se non giorni (tra le 12 e le 72 ore), in quanto le particelle eiettate hanno massa, e non possono raggiungere c (299.792,458 km/s). Sono proprio le CME a generare le aurore polari.

Come si formano le aurore

Il nostro pianeta si comporta come un gigantesco magnete: possiede un campo (generato dal suo nucleo di ferro e nichel) in grado di schermarci dal vento solare, deviando questi corpuscoli che altrimenti sarebbero dannosi per la vita. Le linee magnetiche terrestri tendono a riconnettersi proprio in prossimità dei poli. Quando una CME raggiunge la Terra, alcune particelle vengono quindi convogliate in queste zone, riuscendo a penetrare abbastanza da raggiungere l’atmosfera. Qui conferiscono parte della loro energia ai vari gas presenti i quali si eccitano ma non al punto di ionizzarsi.

Dopo una determinata quantità di tempo perdono questa energia tornando allo stato originario, emettendola sottoforma di luce visibile, a varie lunghezze d’onda (colori). Ecco l’aurora polare. Il colore che l’aurora può assumere dipende dal tipo di gas eccitato e dallo strato di atmosfera interessato. Il rosso per esempio riguarda l’ossigeno monoatomico, avviene a una quota superiore ai 240 km ed è la zona più alta dove il fenomeno può accadere. Il verde avviene subito al di sotto e riguarda sempre l’ossigeno. Più raro è vedere aurore bluastre, generate dall’eccitamento di molecole di azoto, più vicine alla superficie.

Esempio di una CME ripresa a febbraio del 2000. (Credits: SOHO ESA & NASA)

Stable Auroral Red arcs

I SAR invece (Stable Auroral Red arcs) sono fenomeni totalmente diversi, ma sempre generati dalle CME. Avvengono a quote estremamente più alte perché sono generate da una delle Fasce di Van Allen, la più interna. Le fasce di Van Allen sono zone dove le particelle del vento solare vengono intrappolate dal campo magnetico terrestre. Quando una CME abbastanza potente raggiunge il nostro pianeta è in grado di aumentare di molto le energie contenute in questa regione (già di per se molto energetica), al punto tale da farla espandere fino a entrare in contatto con gli strati atmosferici più esterni. Non a caso i Sar a differenza delle aurore sono sempre ed esclusivamente rossi perché a essere interessati da questa espansione della fascia sono solo gli atomi di ossigeno più in quota.

È per questo che sia nel caso del novembre scorso che pochi giorni fa quello che è stato visibile dalle nostre latitudini sono i SAR, e non aurore. Gli archi aurorali infatti avvengono a quote molto più alte, permettendo di essere visibili da latitudini basse, a differenza delle aurore vere e proprie che invece sono nascoste dall’orizzonte. Questo spiega perché i nostri cieli si sono tinti di un colore vermiglio, e non di verde tipico dei paesi nordici. Infine un altro fenomeno associato all’attività aurorale (ma non strettamente connesso ad essa) sono gli STEVE, nome simpatico che sta per Strong Thermal Emission Velocity Enhancement.

È un evento scoperto recentemente e di cui ignoriamo ancora le dinamiche esatte. Si tratta di stretti filamenti di plasma ad altissima quota, ma non generati dall’eccitazione di molecole da parte del vento solare. Tra le proposte si ipotizza che il bagliore si genera da azoto eccitato che si rompe e interagisce con l’ossigeno per formare ossido nitrico incandescente.

Giuseppe Livrieri

Giuseppe Livrieri

Astrofilo, divulgatore, astrofotografo.